domenica 15 aprile 2012

La diaspora nucleare del Giappone

“Ridateci i monti
ridateci i fiumi
ridateci i mari 
ridateci Fukushima 
ridateci il Giappone 
ridateci il futuro per i bambini 
ridateci il mondo senza contaminazione radioattiva” 
L’accorato appello del noto musicista giapponese Ryūichi Sakamoto parafrasa la famosissima poesia “Ridatemi gli esseri umani” di Tōge Sankichi, sopravvissuto di Hiroshima che chiede di riavere tutti i cari annientati dalla bomba atomica del 1945. Oggi questo è senz’altro il sentimento condiviso dalla stragrande maggioranza dei giapponesi.

La speranza del ritorno si fa sempre più fievole, per la gente di Fukushima. 
Il 3 aprile infatti il ministro dell’ambiente Gōshi Hosono ha evocato per la prima volta un’area per cui sarà dichiarata definitivamente l’impossibilità di tornare. Per ora è solo la posizione personale di un ministro, in un governo che al contrario preme per accelerare i tempi del rientro della popolazione nelle zone evacuate dopo il disastro dell'11 marzo 2011. 
Se non fosse per la disperazione degli interessati sarebbe perfino un piccolo segno positivo, di fronte a un governo che minimizza tutto per riprendere al più presto la produzione di energia nucleare. Parlando al primo anniversario del disastro il primo ministro Yoshihiko Noda non ha avuto remore a dichiarare la sua ferma intenzione di riattivare al più presto alcuni reattori, benché l’emergenza di Fukushima non sia affatto rientrata né siano state chiarite le cause esatte dell’incidente. 
«Andrò io personalmente a convincere i locali qualora si decidesse la riattivazione», ha detto Noda suscitando l’ira dei cittadini e degli enti locali intorno alle centrali atomiche.

Anche perché, chi sono esattamente «i locali»? 
La domanda è legittima, dopo Cernobyl e Fukushima. L'esperienza insegna che le radiazioni se ne infischiano sia dei confini amministrativi, sia anche dei raggi di chilometri dalla fonte di contaminazione.
Secondo il governo di Tokyo, i primi reattori da riattivare sono quelli numero 3 e 4 della centrale di Ooi, circa 60 km a nord dell’antica capitale Kyoto, nella provincia di Fukui che ospita il maggior numero di reattori nucleari in Giappone: 13 impianti più altri due in progettazione in un territorio poco più grande della provincia di Nuoro con circa 800 mila abitanti. 
Se rimaniamo al concetto di «locali» finora adottato, ad avere voce in capitolo sarà soltanto la maggioranza dei 14 consiglieri e il sindaco del piccolo villaggio di Ooi-cho (ottomila abitanti di cui la maggioranza lavora alla centrale). 
In passato il parere degli enti locali circostanti non ha influito sulla decisione di un comune che ospita una impianto, tanto meno su quella del governo centrale. Ad esempio la città di Obama, comune confinante con Ooi-cho, ha sempre resistito all’assiduo corteggiamento dell’azienda elettrica e di recente ha approvato a unanimità del consiglio comunale la richiesta di non attivare la centrale nel villaggio vicino. Tuttavia, la volontà dei suoi trentamila abitanti non ha mai disturbato i quattro reattori di Ooi.

Ora però, per fortuna tra le sfortune, Fukushima ha svegliato molti altri amministratori locali. 
A livello provinciale, sia Kyoto che Shiga, provincia a est di Kyoto confinante con quella di Fukui, si sono già espresse contro la riattivazione dei reattori. A Shiga in particolare preoccupa la vicinanza delle centrali al più grande lago giapponese, Biwako, che fornisce acqua a oltre 14 milioni di abitanti della regione inclusa Osaka. Yukiko Kada, governatrice di Shiga, è stata tra i primi amministratori locali a esprimersi per l’uscita dalla dipendenza nucleare, dopo l’incidente di Fukushima. Antropologa e sociologa, la governatrice sostiene: «Il rispetto della natura e la consapevolezza dell’impotenza umana che caratterizzano la cultura giapponese sono radicalmente legati al territorio, costretto a convivere con frequenti calamite naturali quali terremoti. L’energia nucleare, che si basa su una convenienza economica miope, è incompatibile con la nostra cultura».

Gli amministratori non sono i primi né gli unici ad alzare la voce. «Se non riusciamo a fermarla ora, altre riattivazioni seguiranno e le aziende elettriche, il governo e tutti i nuclearisti faranno finta che non sia successo nulla a Fukushima», dicono molti cittadini alle manifestazioni di protesta, ormai divenute quotidiane. «Finiremmo per diventare complici del prossimo disastro».
monaco Nakajima alla manifestazione di Fukui
Tetsuen Nakajima è un monaco buddista del tempio Myōtsū-ji, nel comune di Obama, conosciuto per la sua quarantennale battaglia contro le centrali in Fukui. All’apertura di una manifestazione nel capoluogo della provincia, lo scorso 25 marzo sotto una pioggia tempestosa mista a neve, ha annunciato l’avvio di un digiuno per chiedere perdono ai 360 mila bambini e tutti gli esseri viventi vittime del disastro di Fukushima, e affinché sia evitato il rischio di una Fukushima bis. 
«Alla fine della seconda guerra mondiale, nonostante fosse chiara a tutti la sconfitta disastrosa del nostro paese, l’esercito imperiale giapponese non seppe arrendersi fino alle bombe a Hiroshima e a Nagasaki», ricorda il monaco: «Ripeteremo lo stesso errore anche con il nucleare? Davvero, l’esperienza di Fukushima non ci basta?».

A quanto pare, ai 14 consiglieri comunali di Ooi-cho proprio non basta. 
E a questi si aggrappa il governo di Tokyo, che spera di cominciare a riattivare i 53 reattori ora fermi prima che l’unico e ultimo reattore ancora in funzione a Hokkaido entri nel periodo di sospensione, all’inizio di maggio. Ci riuscirà?

Il 3 aprile il governo ha deciso di rimandare la decisione «vista la forte resistenza delle province confinanti». Ma, il giorno dopo, il segretario del primo ministro ha aggiunto che «dal punto di vista legale il consenso degli enti locali non è indispensabile per la nostra decisione». Nello stesso momento, però, il ministro dell’economia e dell’industria definiva «precoce» la riattivazione dei reattori e il suo collega dell’ambiente parlava di zona off limits a tempo indeterminato per Fukushima. Insomma, neanche tra i quattro ministri che dovranno decidere insieme sulla riattivazione dei reattori nucleari, per ora, non esiste una posizione condivisa. Tutto potrebbe dipendere, dunque, dalla forza delle voci popolari e degli enti locali che si oppongono al ritorno al nucleare.


I rappresentanti contro i rappresentati

Qualcosa sta davvero cambiando, in Giappone. 

Da qualche mese la società giapponese è entrata in una fase politica del tutto nuova. Alla fine di giugno scorso è nato un gruppo di cittadini che chiede un pronunciamento popolare sul futuro dell’energia nucleare. Durante l’inverno a Osaka e a Tokyo si sono costituiti comitati referendari che hanno raccolto firme, superando ampiamente i numeri necessari per richiedere all’amministrazione locale di istituire una legge che indica un referendum sul nucleare. Le due metropoli sono tra i maggiori consumatori di energia elettrica di origine nucleare, ma anche nelle zone produttrici si stanno formando comitati con lo stesso intento; a Niigata e a Shizuoka la campagna partirà in questi giorni.

Mme Uehara
«La notizia della vittoria del referendum contro il nucleare in Italia è stata veramente sensazionale e ci ha incoraggiato molto», dice Hiroko Uehara, ex sindaco del comune di Kunitachi nella provincia di Tokyo, una dei più attivi promotori del comitato referendario nella capitale giapponese. «E' stata una scoperta per molti di noi che i cittadini possono esprimersi anche su una questione come l’energia nucleare, considerata affare dello stato».

In realtà, non è la prima volta che si parla di referendum sul nucleare in Giappone. Sin dai primi anni ’80 si conta una trentina di tentativi di referendum consultivo a livello locale sull’opportunità di costruire impianti nucleari nel territorio, per iniziativa a volte di cittadini, a volte di amministratori. Nella maggior parte dei casi le richieste non sono state accolte (tra questi uno riguarda proprio Ooi-cho, la richiesta degli abitanti respinta nel 1983); tre casi però sono andati in porto tra il 1995 e il 2000: tutti hanno portato alla vittoria schiacciante del No, facendo naufragare i progetti.

pm Sakurai (a sinistra) e Hajime Imai
a una conferenza stampa a Tokyo
Il nuovo movimento, partito a livello locale, punta ora a un referendum nazionale sull'energia atomica in Giappone, ed è assai diverso da quello italiano, che ha una funzione abrogativa delle leggi esistenti. «Il nostro obiettivo principale è rendere i cittadini partecipi della decisione politica sul nucleare», spiega Hajime Imai, giornalista e uno dei maggiori esperti in materia di referendum in Giappone e nel mondo: «Anche se ognuno di noi ha un’opinione chiara in merito, il comitato non esprime una posizione pro o contro l’energia atomica». Il giornalista fa notare il divario che si è creato tra l’opinione pubblica, all'80 percento favorevole ad abbandonare il nucleare, e il parlamento che non rappresenta affatto una tale proporzione: «Il nostro non è un tentativo di delegittimare la democrazia indiretta bensì di colmare le sue lacune. I cittadini offrono la base sostanziale affinché il governo o il parlamento prendano decisioni più democratiche su questioni vitali che riguardano il futuro di tutti».

Il referendum giapponese dunque mira innanzitutto a un’educazione di democrazia, rendere i cittadini più consapevoli e responsabili in politica attraverso lo studio e l’ascolto degli esperti. E condividere le informazioni sull’argomento dovrebbe garantire anche maggiore trasparenza nelle prassi decisionali della politica. «Sarà utile anche per ricuperare la fiducia nella politica che i cittadini stanno perdendo», afferma Mitsuru Sakurai, parlamentare del Partito democratico che la scorsa estate ha formato un gruppo parlamentare per promuovere il referendum.

Miyako Maekita, altra promotrice del referendum nazionale, lo considera un esame di maturità per i giapponesi: «Penso che siamo ormai pronti a prendere una posizione e assumerci la responsabilità delle conseguenze», dice.

Nel frattempo il consiglio comunale di Osaka ha respinto la richiesta di referendum presentata dai cittadini alla fine di marzo; lo stesso si annuncia anche a Tokyo, per bocca del governatore Shintaro Ishihara, che ha liquidato la richiesta referendaria con un tassativo «non è possibile né ho la minima intenzione di accoglierla», definendo i cittadini che vogliono abbandonare il nucleare «scimmie primitive».
«Passeremo alla fase del dialogo individuale», ribatte il giornalista Imai: «Affronteremo gli amministratori che hanno respinto la richiesta, uno per uno, e faremo in modo che non siano rieletti se non cambiano atteggiamento». 
Imai è abbastanza sicuro che i politici rispetteranno gli esiti del referendum. 
«In Giappone finora si sono svolti 401 referendum consultivi locali e gli esiti sono stati sempre rispettati tranne un caso, sulla base militare in Okinawa. Figuriamoci se il governo giapponese avrà il coraggio di cestinarlo davanti all’intero mondo che ci osserva». 

La questione della democrazia e non solo

«I due mesi di raccolta delle firme sono stati massacranti e nello stesso tempo illuminanti», racconta Hiroko Uehara, l’ex sindaco e ora promotrice della campagna referendaria nazionale nonché animatrice del network degli amministratori locali per città libere dall’energia nucleare, che si estende tra Giappone e Corea del Sud. 
«La partecipazione dei giovani, che prima dell’11 marzo erano poco o per niente interessati alla politica, è stata formidabile e decisiva per raggiungere il primo obiettivo. Hanno capito che la sorte del mondo dipendeva anche da loro e si sono dati da fare. E, attraverso i dialoghi con i cittadini durante la campagna, ci siamo resi conto che nonostante l’esperienza di Chernobyl le informazioni sui rischi delle radiazioni sulla salute non sono molto diffuse». 
Con un tono rammaricato aggiunge: «Il colpo più duro, invece, è quello che nessuno si aspettava: i vecchi militanti antinuclearisti hanno rifiutato di collaborare con mille scuse, soprattutto perché temevano che il referendum faccia vincere la posizione nuclearista. Nei loro atteggiamenti mi sembra di individuare le cause di tanti insuccessi delle battaglie per la democrazia nel nostro paese».

“Quando parliamo del nucleare, non siamo di fronte a una semplice scelta sulle fonti energetiche. Qui a essere in discussione è la democrazia del nostro paese”, dice Tatsuya Yoshioka, uno dei rappresentanti dell’ong Peace Boat e direttore del comitato organizzativo della Conferenza globale per un mondo senza nucleare svoltasi a Yokohama lo scorso gennaio. «La credibilità e affidabilità del Giappone sono precipitate dopo l’incidente di Fukushima a causa della scarsa trasparenza nella gestione. La riattivazione delle centrali gli darebbe l’ultimo colpo di grazia. Siamo su un banco di prova che potrebbe cambiare il nostro futuro».

Per l’avvocato Chūkō Kondō di Kyoto si tratta di una lotta per la sopravvivenza umana ancora prima che per la democrazia. Kondō, oggi ottantenne, aveva ottenuto la prima vittoria nelle battaglie legali delle vittime di inquinamento industriale che duravano da cent’anni. Nel 1971 il riconoscimento della responsabilità dell’azienda e dello stato riguardo alla sindrome Itai-itai, causata dall’acqua contaminata di cadmio scaricato da una miniera, segnò una svolta in una storia piena di dolorose sconfitte delle popolazioni sacrificate a nome dell’industrializzazione. Ora, dopo l’incidente di Fukushima, l’avvocato ha deciso di dedicare il resto della sua vita a questa causa: ha cominciato ad assistere alle vittime di Fukushima e intrapreso la preparazione di una causa contro «la zona della più alta concentrazione delle centrali nucleari su questo pianeta», cioè Fukui. La causa, che sarà presentata a Kyoto, dovrebbe coinvolgere 10 mila cittadini come parte civile. «Equivarrà a una campagna referendaria», sostiene Kondō. Le esperienze sue e dei suoi colleghi nel faticosissimo cammino per far valere i diritti di non essere sacrificati a nome della modernità saranno una preziosa arma.

La politica giapponese non sembra affatto risentire dell’accaduto, resta identica a ciò che era prima dell’11 marzo 2011. Tra movimenti referendari e azioni legali, i cittadini riusciranno a scuoterla? 
«Io credo di sì», risponde l’avvocato Kondō, «sento che in Giappone sta cambiando davvero qualcosa». Sta germogliando qualche piccolo seme di un mutamento radicale nella società giapponese.


Yukari Saito©

L'articolo pubblicato sul quotidiano il manifesto del 8 aprile 2012

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